14/07/2015
Secondo gli ultimi dati Istat, i dipendenti del terzo settore in Italia sarebbero più di 680 mila; ai quali bisogna poi aggiungere 270mila esterni e cinquemila lavoratori temporanei. Ne risulta che il sociale dà lavoro al 4 per cento degli occupati italiani: una fetta non trascurabile dell’economia nazionale, che negli ultimi anni ha dovuto però vedersela con i colpi d’accetta della spending review. Tra tagli, razionalizzazioni e piani di rientro sanitario, in un triennio comuni e consorzi socio-assistenziali hanno visto il loro budget ridursi del 90 per cento. Emolti operatori sono costretti a vivere con stipendi da fame: “spesso non si arriva a mille euro al mese, - scrive nel volume Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele - pur lavorando 40 ore a settimana. E il regime di precariato legato alle nuove forme contrattuali esclude da diritti fondamentali come ferie, malattia, pensione o maternità”.
[...]
Non bisogna guardare troppo lontano per osservare le concrete ricadute di tutto questo: a Torino, dove il libro è stato stampato, il mese scorso i dipendenti del welfare comunale sono entrati in stato d’agitazione, denunciando una vera e propria epidemia di esaurimenti nervosi legati a turni massacranti, carenza di personale e blocco del turnover. La definizione corretta sarebbe “sindrome da burn-out”, una forte forma di esaurimento che colpisce soprattutto i professionisti dell’aiuto, ma che dalla giurisprudenza italiana non è ancora riconosciuta. Secondo quanto denunciato dai rappresentati sindacali, a innescare il tracollo degli operatori torinesi sarebbe stata soprattutto una serie di aggressioni, ad opera di cittadini esasperati da un welfare che, in assenza di risorse economiche, non può offrire altro che ascolto e comprensione.
[leggi l'articolo completo su redattoresociale.it]