12/12/2014
[...] Non possiamo nasconderci dietro la tesi delle mele marce. Né, tantomeno, possiamo continuare a sostenere l’idea che l’essere una cooperativa ci consenta, ipso facto, di essere immuni dalle derive rapaci di dirigenti privi di scrupoli. Per avere un antidoto efficace alla deriva predatoria, le imprese sociali non possono più limitarsi ad evocare la propria ragione sociale, al contrario, la fatica della condivisione va praticato incessantemente.
C’è poi una seconda questione, tutt’altro che irrilevante che vorrei evidenziare. Rispetto a quanto emerso, qualcuno si è mai preoccupato di verificare la qualità dei servizi che venivano erogati? Non credo sia necessario essere un acuto osservatore per comprendere che il tema della qualità dei servizi sociale sia stato, per anni, praticamente residuale a Roma. Le pulsioni distruttive che attraversano oggi le periferie romane, non possono non essere in relazione con servizi sociali inefficienti ed inefficaci, che hanno cessato di costruire coesione laddove sono più necessarie politiche inclusive. Immigrati e zingari vittime due volte di un sistema perverso, che li ha usati come strumenti per il profitto e gettati in pasto a populismi vecchi e nuovi.
Ci attende un lungo lavoro per ricostruire il patrimonio di fiducia e consenso, dilapidato in un attimo da questa triste vicenda. In tal senso, non dobbiamo aver timore di aprire porte e finestre, mettere in campo processi attraverso cui restituire alle comunità nelle quali operiamo il senso del nostro lavoro. Per ricostruire una rapporto fiduciario dobbiamo puntare sulla trasparenza, far in modo che i cittadini/utenti siano persuasi che le risorse pubbliche siano state utilizzate per il bene comune e che sia possibile “tracciare” l’impatto sociale prodotto. [...]
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